Under 12: il golf fa bene, ma anche gli altri sport non dimentichiamoceli

Saranno i costi elevati da sostenere, sarà il minor tempo a disposizione da parte dei genitori impegnati ossessivamente sul fronte del lavoro, o sarà una tendenza al perfezionamento precoce, sarà quel che sarà, ma sempre più negli ultimi tempi, nell’universo precoce degli under 12, si assiste a un’eccessiva specializzazione mono-sportiva.

Tradotto: nel mondo fluido e liquido 3.0, i ragazzini praticano –quando sono già fortunati a poterselo permettere- una sola disciplina, col risultato che spesso e volentieri già a 12 anni (o pure prima) sono costretti a scegliere su quale unico sport investire il loro tempo, la loro passione e, perché no, pure il loro futuro.

In questo scenario, purtroppo il golf non fa eccezione: “Anche da noi –racconta Mario Tadini, professionista responsabile degli under 12 piemontesi- la percentuale dei giovanissimi impegnati in molteplici discipline come sci, calcio o tennis, è in netta discesa: chi sceglie il green, lo fa prestissimo e a discapito di altre passioni. D’altronde, se a undici anni i tuoi avversari si allenano già cinque giorni alla settimana con tanto di coach, mental coach e preparatore atletico, la prima cosa che ti viene in mente è che tu debba fare altrettanto. Direi dunque che tutto il quadro generale è quanto meno estremizzato”.

Cestinare la costruzione dell’atleta a lungo termine, quell’idea cioè che prevede il multisport come fattore di crescita fondamentale in tutti quei bambini che sono nella fase antecedente all’età dello sviluppo, ha però delle serie controindicazioni da tener presente: “Più esperienze motorie si fanno prima della pubertà –spiega Massimiliano Barducco, professore di Scienze Motorie all’Università di Genova- e più si avrà nel ragazzo uno sviluppo corretto delle sue capacità coordinative. Ma non solo: più sport si praticano, più benefici ne trarrà anche la mente e non solo il fisico, dunque. Le capacità coordinative, infatti, potenziano le funzioni esecutive del cognitivo: in altre parole, migliorano la memoria di lavoro, la capacità di attenzione, il problem solving e l’autoregolazione”.

Restando nel campo golfistico nazionale, un esempio luminoso della bontà della differenziazione della pratica sportiva è Virginia Elena Carta, l’azzurra che nel 2016 ha dominato l’NCAA Championship negli Stati Uniti: “Innanzi tutto –ha raccontato in una recente intervista- grazie a tutti gli altri sport che ho praticato prima del golf, sono diventata fisicamente più flessibile, ma non solo: dover imparare da subito a gestire tanti impegni e orari diversi, mi ha insegnato dal punto di vista mentale a curare con attenzione il piano di lavoro. E poi dal basket ho preso l’esplosività, dal nuoto la resistenza fisica e dalla vela la forza mentale e la gestione del vento”.

Eppure, ignorando per esempio la carriera di un Martin Kaymer mai passato attraverso la squadra nazionale dilettanti tedesca, o quella di Greg Norman, arrivato al golf piuttosto tardi, nel panorama golfistico nazionale, sempre più spesso si incontrano genitori che si affannano nel riempire le agende extrascolastiche dei propri figli con appuntamenti esclusivamente legati allo swing. Convinti di far il massimo per il piccolo e per la sua carriera sportiva sul green, non sanno che invece sarebbe molto più vantaggioso lasciargli tempo e spazio per altre esperienze motorie: “Spesso –racconta Cristiano Cambi, biomeccanico e preparatore atletico- mi trovo davanti dei ragazzi che non riescono a performare nel golf, perché non sanno lanciare una palla, o calciare un pallone e nemmeno stare sulle punte dei piedi. Gli altri sport, chessò, lo sci, l’arrampicata o il nuoto, servono a fornire ai giovani delle capacità propriocettive e motorie che fanno sì che qualsiasi gesto possa essere performante, soprattutto perché lo swing da solo non crea una motricità migliore. Per dirla in parole povere: fare, oltre al golf, anche altri sport nell’età dello sviluppo aiuta non solo a prevenire gli infortuni futuri, ma anche a tirarla più lunga”.

Ma non solo, c’è anche un altro rischio: “Se si è monosportivi e si inizia a diventare competitivi prima dei 12 anni aggiunge Cambi- si rischia il classico burn out, ovvero si può arrivare a 20 anni già stanchi”.

“Lo penso anche io – rincara la dose Mario Tadini- se ti concentri troppo presto su una sola disciplina, è più facile che altrettanto presto ti venga a noia. E allora mi chiedo: se a 12 anni hai imparato un solo sport e a 16 quello stesso sport ti ha stufato, che fai a quel punto?”.

A quel punto è fondamentale avere il supporto di chi ti sta intorno: “A quell’età, una parola sbagliata pronunciata dal coach o dai genitori può essere una pietra – spiega Samantha Bernardi, psicologa e psicoterapeuta- per questo motivo è fondamentale che chi circonda il ragazzino sia assolutamente preparato  a intuire che chi ha davanti non è un adulto, ma un adolescente che sta vivendo il cambiamento della propria strutturazione e che sta cercando di capire chi davvero è”.

Un consiglio? “Che questi baby campioncini in erba -continua la dottoressa Bernardi- abbiano sempre degli spazi liberi nelle loro agende straingolfate, affinché possano tirare il fiato, anche solo per approfondire la loro rete amicale, che comunque è importantissima. Ma, ripeto, l’aspetto decisivo nella loro crescita è rappresentato dal supporto a 360° di chi sta loro intorno, a partire in primis dallo stesso coach”.

 

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