Chicco: vincere un major? Si può fare, ragazzi

Secondo Greg Norman, per vincere un major non è sufficiente volerlo, ma bisogna dedicarvisi anima e corpo, perché, come ama ripetere da anni lo Squalo Bianco, “le opportunità non accadono, ma bisogna crearle”.

Reduce dal secondo posto al cardiopalma ottenuto domenica al Pga Championship, ne è convintissimo anche Francesco Molinari, oggi giustamente in vacanza con un mood “total scialla” su un’isola al largo di Boston.

“Cosa mi manca ancora per vincere un torneo del Grande Slam? –si chiede il Chicco nazionale al telefono- Sì, forse un pizzico di fortuna, per carità, quella non guasta mai, ma a Quail Hollow ne ho avuta anch’io la mia giusta dose, soprattutto venerdì e domenica. Per cui, direi che mi manca soprattutto di continuare a fare quello che sto facendo, di continuare ad avere fiducia in me stesso, e di trovarmi in quelle posizioni di alta classifica sempre più frequentemente, perché, prima o poi, la giornata giusta arriva per tutti. Guarda quest’anno al Masters cosa è successo a Garcia, per esempio”.

Ok, diciamocelo a chiare lettere: sei più felice per il secondo posto, o più dispiaciuto per non aver vinto il Pga? “Sono in un mix tra il contento e il mannaggia. In tutta sincerità, dopo il secondo posto di Wentworth ero più dispiaciuto di oggi, perché al Pga Championship la situazione è stata diversa: qui arrivavo da dietro e su un campo del genere sperare di recuperare un gran ritardo di colpi significa dover giocare alla grande, ma anche doversi affidare a qualche svarione altrui. Però quello che posso dire è che questo piazzamento per me rappresenta sì un grandissimo passo in avanti, ma certamente non un punto di arrivo”.

Tempo fa mi hai confessato che ogni anno migliori in qualcosa: nel 2017 hai fatto progressi nel gioco corto, nella distanza dal tee e nella forma fisica. Però, a dirla tutta, mentalmente sembri molto più solido di un tempo, o è solo una conseguenza di cui sopra? “In effetti, sulla testa sto lavorando da tempo con Dave Alred”…

Quello che ha scritto il libro “The pressure Principle”? “Sì, proprio lui. La nostra collaborazione dura dal 2016 e fondamentalmente ha cambiato in maniera radicale il mio modo di allenarmi. Prima ero abituato a una pratica ripetitiva; lui invece mi ha obbligato a una pratica il più vicina possibile alle condizioni di torneo”.

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Quindi prediligi la variabilità in allenamento? “Assolutamente sì. E questo metodo, oltre al lavoro che faccio con lui che è proprio per imparare a gestire mentalmente i momenti tosti in campo, mi ha aiutato per esempio a mantenermi lucido dopo l’inizio disastroso del sabato, con il doppio bogey della 1 e i due bogey della 2 e della 3.”

In che senso? “Sul tee della 4, ho messo la palla sul tee e sono riuscito subito a calmare le acque. Ho solo cercato di pensare il più semplicemente possibile: metti la palla in fairway, poi in green e fai il putt. E ricomincia. Punto. Se si riesce a restare calmi in quei frangenti, tutto può succedere. E in fondo io avevo ancora 15 buche davanti a me. Ecco, quello, più che il record del campo del venerdì o il giro di domenica, è stato per me il momento decisivo del torneo”.

Anche a Wentworth, soprattutto nel terzo giro in cui hai remato come i fratelli Abbagnale, hai mostrato grande forza mentale… “Si, è vero. Non ci avevo ancora pensato. Ogni torneo è una gara a sé, per carità, ma ci sono stati frangenti emotivi simili nei due terzi giri di entrambe queste gare”.

Ma dicci la verità: la pressione in un major è più grande di quella provata, chessò, proprio a Wentworth quest’anno? “A essere onesti, sono rimasto molto sorpreso da quanto sono rimasto calmo nell’ultimo giro quando mi sono trovato co-leader a meno 7 sul tee della 15. Certo, ho avuto una botta di adrenalina pazzesca quando ho imbucato alla 14 per il birdie, ma era un’adrenalina positiva, non la tremarola classica. Forse una sensazione simile l’ho provata all’ultimo giro dell’HSBC Champonship che ho vinto, ma chissà, in quei momenti giuro che non hai il tempo e neppure la giusta lucidità per rifletterci”.

Hai parlato del giro di sabato, e la domanda è: come mai gli score sono stati tutti assai mediocri quel giorno? “E’ dipeso da com’era settato il campo. C’erano margini di errore sottilissimi. Per esempio, alla 1 e alla 3 ho mancato la pista col drive per 2/3 metri al massimo eppure ho trovato la palla ingiocabile in tutti e due i casi. Alla 1 ho provato per il green e mi sono infilato in un casino in un bunker a 70 metri dalla bandiera; alla 3 invece ho estratto il wedge dalla sacca per rimettere la palla in pista e alla 2 ho trovato la palla piena di fango”.

Domenica alla 18, Justin Thomas era circondato da Spieth e Fowler. Secondo te questa amicizia solida che esiste tra loro è un carburante per potersi migliorare a vicenda? “Ne sono certo. Si spingono l’un con l’altro e quando uno vince un major, negli altri cresce il desiderio di emularlo. Pensano: se l’ha fatto lui, lo posso fare pure io”.

E allora, te chi emuli? “Mah. Non saprei. Non ho grandi modelli, però cerco di copiare da tutti. E in effetti Costantino Rocca è l’unico italiano a cui posso pensare, visti i risultati che ha avuto prima di me. Però sai una cosa? Piacerebbe a me far vedere agli altri italiani che vincere un major non è roba di marziani. Perché, invece, è fattibile, ragazzi”.

 

 

 

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