Cinghio, il modenese col turbo nello swing

A sei anni ha dato fuoco a casa con una candela; a sette ingoiava monete e bottoni; a otto, per passare il tempo si metteva in verticale a testa in giù; a dieci, finalmente, ha scoperto il golf.

“Un giorno mio nonno –racconta Luca Cianchetti, ventiduenne modenese con un recentissimo passato da campione europeo e un presente da pro sul Tour- mi ha portato in un campo, non in un campo da golf, ma in un prato vero e proprio: ha messo un tee con una pallina per terra e mi ha dato un ferro 7 Power Bilt con lo shaft giallo. Io ho tirato e l’ho centrata alla prima: me lo ricordo ancora. La palla ha volato bella, alta, per quaranta metri. Ed è stato amore a prima vista”.

Da allora di acqua ne è passata sotto i ponti e di metri pure, visto che oggi il Cinghio (questo è il soprannome ufficiale) vanta con il drive una media imbarazzante di 297 yards: come si dice nel gergo del Tour… “l’appoggia”.

Centoventi sono infatti le miglia orarie con cui riporta la faccia del bastone all’appuntamento con la palla e, a dire il vero, sono davvero tante: “Ho sempre avuto la parte bassa del corpo molto reattiva, sin da bambino –spiega con il suo accento modenese- forse è nel mio Dna, perché mio padre e mio zio giocavano a calcio, in serie B. Io ci ho provato, ma non mi piaceva. Perciò mi sono dato al golf ed eccomi qui”.

In effetti la velocità dei tuoi fianchi nel downswing è impressionante, quasi atipica per un fisico massiccio come il suo…

“E’ vero: ho questa fortuna. Ma è una qualità sulla quale non smetto mai di lavorare. È un po’ come il talento: se ce l’hai e poi lo sprechi, sei uno stupido. Per questo continuo a impegnarmi in palestra”.

Ho notato che anche tu hai uno stance con i piedi molto larghi, come Dustin Johnson, Rory McIlroy o Bruce Koepka: è una caratteristica dei grandi picchiatori?

“Sì, soprattutto con il driver. Mi serve per avere più stabilità nella parte bassa. Quando swinghi a velocità elevata, hai bisogno di una base solida su cui ruotare in salita, per poi rilasciare tutto in discesa”.

Ma per essere così potenti, si ha bisogno anche di molta tecnica?

“Non saprei. Quando swingo, penso: poca rotazione dei fianchi in salita, gira le spalle, carica la molla e dagli a bomba in giù. Funziona, pare”.

Funziona, sì: il tuo esordio sull’European Tour ad Amburgo, al Porsche Open, è stato esplosivo: subito una top ten…

“Ero convinto che avrei giocato bene. Arrivavo dall’esperienza all’Open Championship e mi sentivo carico. Non ero intimorito e infatti non mi sono guardato intorno più di tanto: avevo già giocato alcuni tornei da amateur sul circuito, per cui sapevo cosa mi aspettava. Ho pensato solo al mio golf e ha funzionato. Ma non ne sono stato stupito, piuttosto ne sono stato contento”.

Poi però in Danimarca le cose non sono andate un granché…

“E’ vero: ho passato il taglio comodo, poi negli ultimi due giri mi sentivo fuori timing, senza ritmo. Ho perso fiducia e mi sono lasciato andare: sono finito in fondo alla classifica”.

L’anno scorso, proprio di questi tempi, mi avevi detto che avevi imparato a tenere anche quando le cose non giravano al massimo…

“E’ un aspetto sul quale devo ancora migliorare. Ho già marcato dei progressi, ma ogni tanto l’indole emiliana viene fuori. Magari sbaglio un colpo, resto calmo, poi però ne sbaglio un altro ed è lì che esce l’indole. Devo migliorare nella tenuta della pazienza: è fondamentale. Non ho altri problemi: mi sento comodo sul Tour, ho la potenza giusta, un buon feeling con il putt, ma devo ancora imparare a tenere duro fino alla fine, quando le cose non girano a mille”.

Cos’altro è cambiato rispetto alla nostra chiacchierata di un anno fa?

“Beh, ovviamente sono diventato un pro. Il che significa che il golf si è trasformato in un lavoro: sembra banale, ma non lo è, tanto è vero che mi sento molto più sotto pressione rispetto a un tempo. Un anno fa giocare un torneo era quasi una vacanza, ora è una professione. Ho molto più in gioco di questi tempi che in passato. Però c’è di buono questo: che a me piace giocare sotto pressione, mi diverte”.

In effetti sembri più a suo agio tra i campioni del Tour che tra quelli del Challenge…

“E’ vero. So che può suonare strano o presuntuoso, ma come gioco e ambizione sento di appartenere già al circuito maggiore; sul Challenge soffro di più, mi sento scomodo”.

Nel frattempo, tra una chiacchiera e l’altra, Luca tira un drive da 300 yards in salita, si gira verso i compagni di gioco quaranta metri più indietro e chiede: “Che tempo fa da voi, ragazzi?”.

Da lassù, dove è lui, in effetti, il sole sembra splendere molto di più.

(da Golf & Turismo, novembre 2017)

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