IL GOLF E’ LIBIDINE

Deve essere l’orrore del vuoto. L’assedio continuo alla fortino della noia. La compulsività tirannica a riempirsi le giornate di cose da fare.

Sissignore.

Devono essere tutte e tre queste cose mixate per bene in un bibitone da ingurgitare la sera prima di chiudere gli occhi (insieme alle 10 gocce di Minias che sennò, ciao core al sonno).

Deve essere così, altrimenti non me lo spiego. Non mi spiego la mia incapacità cronica di perdere tempo. Il che, detto così, tutto sommato, sembrerebbe fare di me il sunto perfetto della donna multitasking 3.0. E invece no. E invece sono piuttosto una che sul “far niente e basta” ha costruito un castello di nevrosi tale che quel “basta” non sa più nemmeno cosa significhi.

Voglio dire: fare una cosa così, per noia, per gioco, per divertimento, senza impegniprogrammifissazioni e “basta”, non riesco nemmeno a immaginarla.

Leggo per imparare.

Cammino per bruciare calorie.

Cucino per dovere.

Scrivo per guadagnare.

Gioco a golf per vincere una guerra. Che poi, detto tra noi, contro chi mi trovi a combattere manco me lo ricordo più, ma più s’invecchia, più in queste cose si va avanti per abitudine più che per memoria, che tanto arrivi al punto in cui sono io in cui non ti ricordi manco più cosa cavolo hai fatto la sera prima, figuriamoci trent’anni fa. Ma, come mi ha spiegato la mia amica Marcella, questi eterni bracci di ferro si spiegano solo con un’offesa mortale, ricevuta la quale, è praticamente impossibile guarirne.

Insomma, secondo Marcella, il golf in qualche modo misterioso mi avrebbe offeso un secolo fa e io, evidentemente, col bel caratterino che mi si confà, non ci sto. E allora gioco per migliorare. Per vincere. Per non mollare. Mai.

In contemporanea, ovviamente, abbandonarmi al tedio golfistico è diventato un atto sovversivo. Un momento di pura ribellione contro il mio stakanovismo imperante. Una disobbedienza impensabile contro il potere dilagante degli stimoli golfistici a cui sono sottoposta mio malgrado.

Per questo, quando vado al golf, che volete che faccia? Ovvio: tiro e ritiro, provo e riprovo, scrivo e rileggo, appunto note e ne spunto altre, ascolto consigli e cestino quelli inutili, approccio una volta con la faccia del bastone aperta, un’altra con la faccia chiusa, putto da destra a sinistra e da sinistra a destra, draivo in draw alto e in draw basso, cammino e sempre torno indietro a riprovare una volta in più. Non sia mai che non abbia capito bene. Perché conosco bene i colpi brutti dai quali l’unica difesa è la fatica, e so anche bene che i colpi brutti passano, ma non basta questo a farli passare prima. Anzi, a dirla tutta, certi ganci fanno giri immensi e poi hanno anche il coraggio di ripresentarsi, i maledetti.

Ecco. E in questa iperbole iperattiva mi pare di perdermi il bello delle cose. La rilassatezza di nove buche al pomeriggio. Una partitella tra amici a ridere e scherzare. Una incedere sciallo in fairway mentre pensi ai fatti tuoi.

Epperò, quando la palla parte alta in draw dritta al bersaglio e sento il bastone che diventa la prolunga del mio braccio destro che quasi la pallina mi pare di poggiarla in green con la mano come si poggia un passerotto in terra, ecco, in quel momento lì, sapete che c’è? C’è che capisco che non esiste un tribunale apposta, un tribunale che mi possa dire cosa va bene, cosa non va bene, cosa è stupido, o cosa è stupido in maniera accettabile.

L’unico giudizio che accetto è come fa sentire me quel colpo alto in draw che atterra in asta. E se mi rende orgogliosa di me stessa come so che mi rende, capisco che il guaio non sono io. Il guaio è non avere un sogno e allora accontentarsi di ciò che si trova in giro, mentre il bello della vita è inseguire ciò che veramente si desidera. E quando capisci che il golf è ciò che desideri, allora, il gioco diventa una libidine: voglio dire, il sesso negli anni può anche venire meno, ma la libidine -Springsteen, Louis Armstrong, Sting-  quella sensazione  che ti apre i pori tutti, quella roba lì resta in eterno.

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