Laporta: qualsiasi essere umano, con un buono spirito di sacrificio, ce la può fare

È una sacrosanta verità: il mondo cambia quando i giovani si impegnano. Penso a ciò che sta accadendo a Hong Kong; penso a ciò che sta combinando Greta; penso a che risultati ha ottenuto Francesco Laporta.

Francesco Laporta

Sì, perché dopo 3 anni di purgatorio sul Challenge Tour, “Lapo” tornerà sul circuito europeo maggiore tra due settimane, all’Alfred Dunhill Championship in Sudafrica. E lo farà da protagonista, avendo vinto la Race to Mallorca e due gare del Challenge, lui che in sei anni da professionista, non aveva mai vinto nulla prima dell’Omnium di quest’anno.

E’ una storia di riscatto, la sua: la storia di un ragazzino che a 16 anni con un handicap 8 parte dal Sud, da quella stessa Puglia martoriata dagli ultimi avvenimenti, e traghetta la sua solitudine, le sue speranze e il suo sogno in un’Academy sperduta in Sudafrica. Ed è lì che, attraverso il lavoro, la convinzione, l’umiltà e la forza di una passione, trova gli strumenti per passare pro e poi, più tardi, con tutto l’aiuto del suo team del San Domenico, per sbarcare finalmente sullo European Tour.

“Noi del Sud –mi racconta Laporta- siamo gente dal cuore enorme, siamo grandi lottatori. A un ragazzino della Puglia di oggi farei vedere il film sulla vita di Ballesteros, di quel genio che arrivava da una terra peggiore della nostra. Gli farei vedere come tutto diventa possibile se non si smette mai di provare a inseguire un sogno. Il mio sogno era lo stesso di Seve: da ragazzino mi allenavo con due Titleist in campo: la 1 era lui e la 2 ero io. Erano sfide infinite. Giocavo da solo, io con lui, ma a me la solitudine non ha mai fatto paura, anzi: vuoi che ti racconto una cosa?”

Certo…

“Allenarmi da solo alla fine si è rivelata una forza. Sto bene con me stesso. Ti dico di più: ho bisogno di stare da solo, soprattutto tra una gara e l’altra, quando sono a casa. Pensa, prima di partire per le trasferte, vado sempre un paio d’ore in giro da solo per il San Domenico a cercar palline: mi rilasso. Poi quelle che trovo le regalo al caddie master che se le rivende e dunque gli faccio anche un favore. Io mi sento meglio e lui è felice. Cosa vuoi di più?”

C’è mai stato qualcuno che ti ha detto: non ce la farai mai?

“Certo. Mi chiamavano terrone e tutte quelle robe lì. Ma chissenefrega: la mia natura è quella di non stare a sentire quello che dicono gli altri. Ho puntato su me stesso e ancora prima lo ha fatto la mia famiglia, a cui devo tutto. A 16 anni mio padre mi disse: “Francesco, la scuola ti fa schifo, troviamo qualcosa che ti piace. Mi pare che con ‘sto golf ti trovi bene, no? E allora vai a imparare a giocare bene. Vai in Sudafrica”. Ecco, lui ci ha creduto ancora prima di me, pur dovendo fare mille sacrifici”.

In questa stagione sull’ottovolante, hai scoperto qualcosa di te che ancora non conoscevi?

“Che so gestire la pressione. Prima, se ero in contention, andavo nel panico, addirittura non mi andava di scendere in campo, avevo paura di affrontare la gara; adesso non vedo l’ora di cominciare. È stato un processo lungo, iniziato due anni fa con un mental coach, che però mi ha portato qui, dove sono ora: a sentirmi pronto a competere con tutti gli altri”.

Un anno fa, a Gardagolf, mi dicesti che eri uno che si incavolava a bomba in campo. E adesso?

“Mi incazzo meno perché sto giocando bene (ride..), però la verità è che sbrocco sempre, ma giusto per un piccolo momento, poi, sul colpo successivo, arrivo già concentrato. Anche il mio mental coach me lo ha detto: arrabbiati. Basta però che duri meno di 20 secondi”.

Il premio più importante della carriera lo hai intascato all’Olgiata, all’Open d’Italia: cosa ti sei regalato?

“Un paio di Nike, perché sono un collezionista di sneaker. Solo di Nike, però. Ti faccio un esempio: quest’anno, a ogni top 10 che ho centrato, sono andato sul sito della Nike e mi sono fatto un piccolo regalo. Ah, e mi sono pure concesso un telefonino nuovo, tiè”.

Hai avuto occasione di vedere qualche giovane talento italiano al San Domenico?

“Sì, perché qui ne vengono tanti a giocare le gare nazionali. Quello che vedo sono ragazzini di 13 anni ai quali sembra che il par faccia schifo, ragazzini per i quali conta solo fare birdie. Non capisco questa fretta, sarà che io ho iniziato a giocare a 13 anni. Sarà che so che il golf è un gioco di pazienza, in cui bisogna imparare il valore del par e solo dopo si intuisce quando poter essere aggressivi. Personalmente ho impiegato anni per capirlo. Mah…”

Adesso, con le Nike e i cellulare nuovi, con la carta nuova di zecca dell’European Tour, ti senti comodo?

“Te lo dirò tra due settimane, quando metterò il tee alla 1 in Sudafrica all’Alfred Dunhill Championship. Nel frattempo non ho cambiato nulla della mia routine: vado molto in campo, poco al driving range, che praticare mi fa schifo. Lo faccio giusto una mezzoretta dopo aver fatto 18 buche concentrato. E poi investo molto sulla mia preparazione fisica, che sennò arrivo alla fine della stagione stremato. Ma, sai che c’è?”

No, che c’è?

“C’è che all’Open d’Italia, a Roma, ero totalmente a mio agio. Perché mi sono reso conto che il Tour è dove merito di giocare. Nessuno là fuori è un robot, siamo tutti degli esseri umani. E con un buono spirito di sacrificio qualsiasi essere umano ce la può fare”.

Comments

2 Comments
  1. posted by
    Mauro Falco
    Nov 16, 2019 Reply

    Grande,una bella storia di golf e di vita.

  2. posted by
    Maria teresa d’alessandro
    Nov 17, 2019 Reply

    Bellissimo articolo su un grande golfista, Francesco Laporta.

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