Quando il gioco si fa duro e Rory scompare

Alcuni sostengono che il golf sia un gioco, altri uno sport, altri ancora invece lo definiscono una disciplina. A me piace pensare al golf come un’arte: secondo alcuni grammatici antichi, l’etimologia della parola latina “ars” (arte) deriva dal vocabolo greco “aretè” (virtù); altri propongono una parentela con “arto” (comprimo).

In buona sostanza, si può intendere per arte un procedimento che compatta le parti di un tutto. Anzi, più nello specifico, arte indicherebbe un insieme di conoscenze astratte capaci di trasformarsi in applicazioni concrete.

Se visto in questo senso, il golf è arte, ovvero la capacità di concretizzare conoscenze, capacità innate, tattica e quant’altro in un volo di palla il più preciso e ripetitivo possibile.

Contemporaneamente, a leggere certi versi di Ovidio o di Virgilio, viene spontaneo accostare l’arte alla natura, di cui altro non sarebbe se non pura imitazione: per i classici, “ars” è infatti una ripetizione di procedimenti creativi che in natura esistono spontanei.

Ora, veniamo al punto. Cioè all’ennesima defaillance di Rory McIlroy, che, partito in testa domenica al WGC FedEx St. Jude a Memphis, ha riportato in clubhouse uno scialbo 71, lasciando la porta spalancata al successo di Koepka e risultando l’unico top10 del torneo a non firmare un punteggio in rosso nella domenica.

Rory McIlroy

A ben vedere, gli ultimi anni di Rory sono una reiterazione di questo bizzarro comportamento, soprattutto nelle ultime 18 buche quando il gioco si fa duro: solo nel 2019, ha firmato 74 al Sentry (finendo 4°), 72 all’API (finendo 6°) , 73 al Wells Fargo (8°) e 71 ieri (4°).Strano, per uno che vanta una media score di 69 colpi, e la 1° posizione negli Strokes Gained off The Tee, negli Approach to Green, nei Tee to Green e nei Total. Strano che uno che la schiaccia come un martello nei momenti clou sembri perdere per strada pezzetti decisivi del puzzle chiamato golf: come un neurodilettante del weekend, a Rory se funzionano i ferri, manca il putt; se c’è il putt, manca il drive, e se ci sono ferri e drive, manca il wedge.

Ora, i guardoni delle cose del green si chiedono globalmente cosa succeda a McIlroy. Se avessero studiato i classici, forse si risponderebbero come i latini: a Rory viene a mancare l’aspetto artistico, cioè la completezza delle sue capacità naturali. Se l’arte è copia della natura, spesso sotto pressione al nordirlandese sparisce la capacità di essere naturale, spontaneo, istintivo. Si limita a osservare, ma non a replicare. Diventa spettatore e non attore.

Se il golf esiste come arte e dunque come un completo insieme tecnico, razionale, espressivo e di bellezza, ecco a McIlroy sale abbestia la parte razionale. Gli monta in groppa l’ansia e pare girare attorno allo score come una farfalla attratta dalla luce, che finisce col bruciarsi le ali sulla lampadina. Come più volte ha spiegato lui stesso, deve ritrovare la semplicità di quando era ragazzino, ma probabilmente sa anche lui che non esiste nulla di più complesso e perfetto della semplicità.

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