Quando il made in Italy funziona bene

(Da Golf & Turismo, luglio 2019)

L’esperienza ci insegna che più che fornire risposte, il golf pone sempre delle domande. Una di queste, una che va per la maggiore di questi fortunati tempi azzurri, è come sia possibile che l’Italia del green, una nazione con 91.165 tesserati (dato aggiornato a dicembre 2018), riesca negli ultimi sette mesi a vincere dieci tornei open su vari circuiti con i suoi pro (l’ultimo a metà giugno con Andrea Pavan che si è imposto al play off al BMW International Open) e ben sette campionati internazionali con i suoi amateur, per un totale di diciassette titoli che fanno gola pure a paesi golfisticamente più attrezzati di noi.

Per esempio: prendete i nostri cugini d’Oltralpe, prendete i francesi, coloro i quali hanno appena ospitato un’epica edizione di Ryder Cup. Ebbene, i galletti, che hanno 650 percorsi e vantano 412.000 tesserati alla FFGolf, hanno una federazione che per il quadriennio olimpico 2017-2020 ha stanziato un budget da 27 milioni di euro, di cui il 27% va dritto, dritto al settore tecnico, vale a dire alle nazionali professionistiche e dilettanti.  In soldoni fanno 7,29 milioni totali, di cui 1,82 annui. Una cifra, questa, che è più di quanto investiamo noi nel nostro settore tecnico (1,6 milioni), ma che, meramente a livello di risultati sportivi, regala decisamente minori soddisfazioni: se infatti a metà giugno la Francia aveva un solo giocatore all’interno dei top 35 della Race to Dubai 2019  (Romain Langasque, in 24° posizione), l’Italia ne schiera addirittura tre, con Francesco Molinari 9°, Guido Migliozzi 23° e Andrea Pavan 32°. E ancora: al 25 di giugno, mentre gli azzurri avevano già conquistato tre titoli sullo European Tour (Kenya Open, Belgian Knockout e Bmw International Open) e uno sul Pga Tour (Arnold Palmer Invitational), i cugini d’Oltralpe se la viaggiavano ancora a bocca asciutta. Ma non solo: scorrendo le statistiche del’Alps Tour, il circuito dove si fanno le ossa le giovani star del futuro del green europeo, al 25 giugno risaltavano due cose: la prima, c’erano quattro nomi italiani nei top 10 della money list (Edoardo Lipparelli, Lorenzo Scalise, Enrico Di Nitto e Federico Maccario), contro due francesi (Poncelet e Lacroix); la seconda, i nostri atleti impegnati su quel mini circuito avevano già portato a casa quattro titoli, mentre i cugini ne avevano conquistato uno solo.

Andrea Pavan vittorioso a Monaco

Dunque: nonostante il minor bacino di utenza, nonostante i numeri più piccoli, nonostante la minor disponibilità di euro, nonostante tutto, l’Italia del golf è un paese sportivamente assai vincente. E non lo è solo da adesso: già il 2018 era stato un anno da incorniciare, una stagione in cui i golfisti azzurri avevano battuto il record di vittorie internazionali (e tra queste c’era un Open Championship), issandolo a quota trentaquattro.

Il golf insomma continua a sognare in un Paese che non solo non pare avere le stigmate per la cultura sportiva legata al green, ma che pure è piegato e piagato da una profonda crisi economica che non pare volersi fermare.

Francesco Molinari nella Ryder Cup 2018

A questo punto, la domanda d’obbligo è una sola: alla luce di queste vittorie tutte puntate verso l’edizione romana della Ryder Cup 2022, si tratta del solito stellone azzurro o esiste una formula magica?

“Non è niente di tutto questo –precisa Matteo Delpodio, un passato da giocatore di Tour e un presente come allenatore della nazionale professionisti- perché i risultati dei nostri giocatori scaturiscono dalla bontà della preparazione dei nostri tecnici e allenatori, a partire da quelli dei club dei giovani all’interno dei circoli. A livello didattico non è un segreto che l’Italia sia da anni un punto di riferimento all’estero. Ma non solo: è vero che abbiamo pochi giocatori, ma è anche vero che quei pochi, quando hanno delle potenzialità, sono seguitissimi dalla Federazione sin da piccoli. Ne è una riprova il fatto che, anche se i  numeri degli juniores fanno fatica a salire, al contempo i loro handicap si stanno abbassando, dimostrando quindi come il livello tecnico del settore giovanile stia migliorando in continuazione”.

Tradotto: negli ultimi anni la Federazione ha saputo trasformare una sua debolezza –l’esiguo numero di praticanti- in un suo punto di forza. “A livello Fig –continua Delpodio- c’è molta assistenza grazie al sistema dell’attività giovanile, un sistema che sin dai circuiti under 12 recluta i migliori, li aiuta coi brevetti e li sostiene nella loro crescita tecnica fino e oltre il passaggio al professionismo. Ovviamente tutto ciò è possibile perché siamo pochi: se guardo agli Stati Uniti, vedo una massa straordinaria di golfisti, che però dalla USGA riceve pochissima assistenza”.

La sostanza è che, soprattutto negli ultimi anni, la didattica dei nostri coach è riuscita a produrre una tecnica che si occupa dell’efficacia e non solo dell’estetica del gioco: il risultato è che, forte dei suoi giovani campioni, il golf italiano sta ripartendo dal basso e, attraverso una nuova politica sportiva, sta cominciando a entrare nelle scuole e nelle periferie col Progetto Ryder Cup 2022, abbracciando così il Paese e dimostrando che questo può essere davvero uno sport per tutti, pieno di principi e valori.

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