Semplificare il semplificabile

Se non sai come fare una cosa, falla semplice.

Me lo ha saggiamente consigliato una mia amica a Crans, quest’estate, tra una buca e l’altra dell’Omega European Masters di golf.

Insomma, semplifica il semplificabile era il messaggio non troppo velato che la tipa m’invitava al fine di rendere ogni aspetto della mia vita più vivibile e respirabile e meno ansiogeno del solito.

Ora: pare semplice semplificare il semplificabile, ma non lo è per niente. Perché la semplicità non è un cromosoma che ti porti appresso tatuato nel tuo dna sin dalla nascita. Non è così che funziona, soprattutto se hai una mente barocca portata all’arzigogolamento neuronale.

Piuttosto, la semplicità è un’arte e come tale va praticata. La si allena aggiungendo costantemente dei meno e la si raggiunge per sottrazione.

Bisogna tagliare film mentali da cinemascope, rimuovere aspettative inconcludenti, sciogliere nodi atavici, sfrondare legami pericolosi, cancellare coazioni a ripetere e poi, togliere, togliere, e ancora togliere.

Il risultato di questa sfilza di meno è la perfezione, che si raggiunge quando non c’è più nulla da levare: la nitidezza di un’idea. Il candore di un’immagine. Il bianco purificatore.

In questo progetto di semplificazione generale, come in ogni progetto d’altronde, credo si debba partire dalle piccole cose.

Meno lievito nel cibo, meno balze nelle gonne, meno avverbi nella scrittura, meno spese folli, meno scarpe da gran sera, meno amicizie inutili.

In totale, bisognerebbe essere in grado di acchiappare il pacchetto delle proprie seghe mentali e ridurlo all’ “espace” di un coriandolo da lasciar svolazzare nel vento come quel milione di parole inutili che ti sei sentita ripetere o che tu stessa hai pronunciato nel tempo.

Bisognerebbe insomma liberarsi dalla schiavitù delle apparenze ed essere altresì in grado di calarsi nelle profondità del banale pragmatismo assoluto.

In questo percorso semplificatore, non volendo per ora rinunciare a scarpe, balze, glutine e quant’altro, sono partita dal golf. Che poi, in fondo, altro non è che lo specchio del labirinto delle mie paturnie decennali. E, ve lo giuro, per la prima volta in vita mia, sono riuscita a semplificare. E la semplicità ha funzionato e ha pagato nello score.

A cinque metri dal green di un par 5 in due colpi, a sette metri dall’asta in discesa, come un’Alice nel Paese delle Meraviglie alle prese con lo Stregatto, ragionavo su fantomatici sand iron lobbati, invidiabili ferri 9 a correre, improbabili 52° a battere contro il gradino dietro la buca per poi far scivolare la palla in retromarcia. All’improvviso ho sfanculato di botto le mie fantasie golfistiche da Olimpiadi mentali e mi sono decisa a facilitarmi la vita, estraendo dalla sacca il modestissimo putter.

Risultato: una pattata a bombazza finita a 60 centimetri dalla buca e a seguire un birdie calato. E, partendo proprio dal mio perfettissimo par 5, ecco una morale da trarre tagliente come un machete: se certe scoperte appaiono semplicissime solo dopo che le hai scoperte è perché siamo tutti scratch quando si tratta di complicarci l’esistenza e tutti 36 quando si tratta invece di rendercela più facile. Insomma, per dirla in modo semplice: la semplicità non è mai semplice.

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