The Masters, che fine ha fatto Jordan Spieth?

Dicono che il golf abbia questo di straordinario: che sia capace di interpretare il nostro stato d’animo. Che, insomma, i numeri matematici legati alle 18 buche non siano altro che lo specchio nel quale poterci rimirare per scovare quei lati della nostra personalità altrimenti invisibili all’occhio umano.

Se così fosse, soprattutto in vista della prossima apertura dei cancelli di Magnolia Lane in quel di Augusta, ci sarebbe da fermarsi a riflettere qualche minuto sulla situazione psicologica in cui da qualche tempo tergiversa un giocatore che, più di altri, nel bene come nel male, nonostante la giovane età, ha già vergato la storia del Masters: Jordan Spieth.

Su quei green leggendari e vellutati, il 25enne americano si è fatto conoscere al mondo intero, prima quasi andando a conquistare il torneo al suo debutto in Georgia da giovane pischello nel 2014, e poi indossando l’agognata giacca verde l’anno seguente, quando, con uno score totale di meno 18, pareggiò i conti con il record di Tiger Woods per il punteggio più basso mai ottenuto da un vincitore del Masters.

Ma è anche vero che la storia di Spieth con Augusta non finisce con la green jacket del 2015, ma continua con quell’altra, quella che si è visto letteralmente sfilare dalla gruccia nel 2016 da un Denny Willett particolarmente ispirato, ma anche e soprattutto da un incredibile quadruplo bogey 7 che Jordan ha marcato in mondovisione, flappa dopo flappa, al terribile par 3 della 12.  

Da lì i primi dubbi sulla tenuta mentale di un texano che fino a quel momento pareva letteralmente di ferro, e che invece, così crudelmente, abbiamo scoperto essere capace di sciogliersi come neve al sole.

Eppure la grandezza di Spieth sta anche in questo: nell’incredibile resilienza insita nel suo DNA, nella sua capacità, cioè, di “rimbalzare” all’improvviso da un momento negativo verso vette di risultati eccelsi: come infatti il texano è in grado di ricomporsi dopo colpi scentrati e ritrovare la via per il par, allo stesso modo ha in sé la forza di risollevarsi dai momenti più bui per infilarsi nel più piccolo spiraglio di luce che riesca a trovare di fronte a sé.

Di questa dote tipica dei geni dei campioni più puri, ce ne ha dato dimostrazione a bizzeffe lungo la sua pur breve carriera: quando ha conquistato lo U.S. Open del 2015 segnando il birdie alla 72° buca dopo il doppio bogey inatteso al par 3 della 17; o quando è riuscito nel 2017 con uno stretch di meno 5 nelle ultime cinque buche dell’Open Championship a ritrovare la via della Claret Jug direttamente dal campo pratica piazzato 50 metri a destra della 13 del Royal Birkdale, dove Jordan era finito con un drive totalmente balengo.

Ma, se quel links tremendo ha consegnato al mondo uno Spieth da annali, allo stesso modo, ci ha regalato l’ultima versione in mood Terminator di quello stesso giocatore: da allora, infatti, il texano non ha mai più azzeccato un solo successo. Ma non solo: l’ex numero 1 del mondo non centra una top ten addirittura da un altro Open Championship, quello del 2018 vinto dal nostro Francesco Molinari.

In mezzo, tante settimane, parecchi tagli lisciati, qualche score oltre gli ottanta colpi, e addirittura una mancata qualificazione al Tour Championship di Atlanta della passata stagione. E ancora, come se non bastasse, anche un inizio di 2019 da dimenticare, caratterizzato da pochi alti e molti bassi preoccupanti, e da numeri statistici che lo relegano sempre oltre la centesima posizione.

A inizio aprile, il texano (che pareva) di ferro è sprofondato alla 170° posizione in FedEx: lontanissimo dai suoi amiconi Justin Thomas e Rickie Fowler, gli stessi che negli ultimi anni non hanno fatto altro che rincorrerlo su e giù per le classifiche di mezzo mondo e che adesso non passa settimana senza che gli facciano sentire il rombo dei loro motori sempre a gas aperto.

Che cosa succede a Spieth, dunque, è la domanda che rimbalza sulla bocca di tutti mentre si attende l’apertura di quegli stessi cancelli di Augusta attraverso i quali negli ultimi anni Jordan è sempre entrato da assoluto protagonista.

Che sia l’andamento lento del putt l’origine di ogni male golfistico di Spieth è certo: quello che però appare lampante è anche come i risultati negativi che sul green perdurano almeno da una stagione si siano riversati, come nella teoria dei vasi comunicanti, anche nel gioco da tee a green delle ultime settimane. Pochi i drive in pista di Jordan e meno ancora i green presi nei colpi regolamentari: quando un giocatore sa che intorno alla buca ci sono dei problemi, alla lunga quegli stessi problemi se li ritrova tradotti in una maggiore pressione nel gioco dal tee. Non è dunque un caso se oggi Spieth sia 203° nelle statistiche relative agli Strokes Gained con il driver, 172° in quelle da tee a geen e 70° nel putting.

Un mezzo disastro, insomma, dal quale l’americano pare faccia fatica a intravedere una lucina che segnali l’uscita d’emergenza.

“Dal punto di vista tecnico –sostiene Cristiano Cambi, preparatore della nazionale dilettanti – Spieth è sempre stato appeso a un filo, soprattutto se pensiamo al suo swing. Ma quando quel filo si spezza, e per filo intendo il grande rendimento sui green, allora sono dolori veri. Inoltre anche dal punto di vista fisico non ho notato grandi miglioramenti, né novità. Anzi”.

Insomma, è crisi piena sul pianeta Spieth, ma è anche vero che l’esperienza insegna che i grandi cambiamenti, quelli che sono come una sterzata improvvisa nell’andamento quotidiano, non arrivano mai dall’esterno, ma solo da una forte determinazione interiore. Una qualità che Jordan ha dimostrato di possedere a carriolate e sulla quale deve ricominciare a far affidamento sin da subito, se davvero vuole rientrare dai cancelli di Augusta da attore protagonista.

IL PARERE DEL MENTAL COACH

Le più grandi battaglie sono quelle che combattiamo contro noi stessi e non c’è dubbio che negli ultimi mesi Jordan Spieth ne stia affrontando una simile, per lo meno quando si trova in campo con lo score in tasca: “Quando un campione come l’americano inizia ad allungare la sua routine prima del colpo – spiega Davide Mamo, mental coach che collabora con alcuni dei migliori golfisti azzurri – è un campanello d’allarme. Significa che nella testa di quel giocatore ci sono troppi pensieri. Il che non va assolutamente bene: vuol dire che si sta perdendo istintività per lasciar troppo spazio al ragionamento, che, a sua volta, di solito è arzigogolato e poco efficace”.

E infatti è proprio quello che è successo negli ultimi mesi a Spieth: “Sì –continua Mamo- abbiamo assistito a quello che io definisco un effetto alone: da una consapevolezza di scarsa efficacia in una parte del gioco, il putting nel caso di Jordan, si passa a caricare di tensione tutte le altre aree del golf e si finisce con il mettere in ombra ognuna delle proprie consapevolezze”.

E come se ne esce? “Bisogna focalizzarsi sui punti di forza per averne ancora più certezza. Ci si attacca al metodo: ci si chiede quali siano i capisaldi del proprio gioco e si cerca di migliorarli ulteriormente. È come andare in palestra: non basta una seduta di allenamento per fare i muscoli, ma ci vuole costanza e disciplina”.

Giocare su un campo come Augusta che Spieth pare amare particolarmente, può essere d’aiuto per una rinascita? “Certamente. È necessario preparare un lavoro di visualizzazione importante nelle giornate prima del torneo per rendere il percorso ancora più amico all’occhio. Ricordarsi che su quel campo sono stato forte in passato può creare un mood positivo per combattere l’effetto alone di cui parlavo prima”.

(da Golf & Turismo, marzo 2019)

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