Virginia Elena Carta: è il dettaglio a far la differenza

Il mondo non è un insieme di cose, ma è un insieme di eventi. Di accadimenti. Di processi. Di qualcosa che non dura, ma che è un continuo trasformarsi. Per cui capita che una bambina di 9 anni che segue la mamma sul campo de Le Rovedine inizi a giocare anche lei con quei bastoni così lunghi e pesanti.

Succede anche che quella stessa bambina nel frattempo si diverta anche con il basket e pratichi assiduamente la vela, la pallavolo, il calcio e pure il nuoto.

Succede che, tre anni dopo, nel 2009, un infortunio ai legamenti della caviglia la porti definitivamente sul campo da golf.

Succede che quella stessa bambina, ormai diventata adulta, nel 2016 domini l’NCAA Championship, giochi la finale dello U.S. Amateur e, unica italiana, nel 2017 sia invitata a giocare lo U.S. Open.

Virginia Elena Carta, classe 1996, capricorno, è quella bambina che a 9 anni swingava coi bastoni pesanti della mamma provando per giunta a overdrivare i maschi più grandi di lei: oggi è riconosciuta come una tra le più forti amateur del pianeta.

“Giocare con quei ferri da piccola –racconta via Skype dal North Carolina- mi ha insegnato a dare velocità alla testa del bastone e, al contempo, provare a superare i ragazzi mi ha permesso di imparare da subito a picchiare forte la palla. Perché una cosa è certa: prima di tutto bisogna imparare a fare distanza, solo dopo viene lo swing corretto”.

E in che modo tutti gli altri sport che ha praticato l’hanno aiutata nella sua formazione golfistica?

“Beh, innanzi tutto sono diventata fisicamente più flessibile, ma non solo: dover imparare da subito a gestire tanti impegni e orari diversi, mi ha insegnato dal punto di vista mentale a curare con attenzione il piano di lavoro. E poi dal basket ho preso l’esplosività, dal nuoto la resistenza fisica e dalla vela la forza mentale e la gestione del vento”.

La vela regala forza mentale?

“Assolutamente. Ci vuole una concentrazione massima per gestire la barca al meglio e soprattutto moltissima pazienza”.

E l’esperienza universitaria negli Stati Uniti cosa le sta insegnando ?

“In questi ultimi due anni alla Duke sono cresciuta tantissimo come persona. Qui tutti quelli che ti stanno intorno, ogni membro dello staff di studio o del team di golf, ti aiutano a diventare un’adulta, a fare le scelte giuste, in ogni occasione. Ma l’aspetto più importante è che comunque lasciano sempre che sia tua l’ultima parola. Sono diventata più indipendente, perché ovviamente posso contare solo su me stessa non avendo gli appoggi che avevo a casa. Insomma, ho imparato a pianificare la mia vita e il mio futuro”.

Dunque sta pianificando anche ora…

“Certo che sì! Dipende da come giocherò i prossimi due anni: se sarò in forma proverò il Tour e sennò, amen, farò un Master qui alla Duke, proverò a entrare all’Onu, mi farò una famiglia, dei figli e poi magari tornerò all’università per insegnare. E comunque, anche se dovessi passare pro, non mi vedo a giocare per tutta la vita: a 30 anni smetto e metto in azione il piano B, quello che le ho appena descritto”.

A proposito di Tour, prima dello U.S. Open, ha già fatto un’ ottima esperienza sul circuito Lpga proprio l’anno scorso: com’è andata?

“Ho giocato un bellissimo torneo in Ohio e ho passato il taglio. Mi ha colpito l’assoluta serenità di certe giocatrici. Voglio dire: io sono un tipo tranquillo e calmo, ma loro….Wow! Andavano in pieno bosco? Era come se stessero in centro alla pista: non cambiava nulla nella loro attitudine, continuavano a sorridere, a chiacchierare e poi salvavano sempre e comunque il par. Ecco, io devo imparare proprio questo: a combattere fino in fondo anche quando sperdo la palla, devo imparare a salvare i colpi anche dal pieno inferno”.

Ma insomma, quali sono i più utili: i giri buoni o quelli cattivi?

“Dipende. Nel breve termine, ovvio, sono quelli buoni, ma alla lunga quelli pessimi insegnano di più. Ma il golf è strano: la differenza tra un 69 e un 72 è minima, ma in quel minimo c’è una marea di cose che variano. E bisogna saperle leggere, anche se non sempre è facile. Ma le dirò di più: si possono segnare dei 69 perfetti che però non ti aiutano a migliorare e magari invece si fanno dei 68 in cui si gioca malissimo ma nei quali s’imbuca qualsiasi putt. Ecco: sono questi ultimi i giri sui quali bisogna trovare il tempo per fermarsi a riflettere e a capire su cosa bisogna lavorare”.

E allora le chiedo: su cosa deve lavorare Virginia, adesso?

“Sul gioco corto. Devo prendere spunto dalla under 18 azzurre: sono una vera fonte d’ispirazione!”

 

(da Golf & Turismo luglio 2017)

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