C’è una Pamela Prati anche in noi golfisti

Stamattina camminavo in centro, quando una signora accanto a me, con le buste della spesa targate Coop in una mano e un cellulare nell’altra, chiacchierava bellamente con il suo interlocutore telefonico, proferendo testuali parole: “Non posso venire, scusa tesoro, perché in questo momento sono all’estero”. All’estero??? Ma se era in pieno centro in Italia! Mah…

E così ho capito una cosa. Ho capito che c’è uno spicchio (fortunatamente meno diabolico) di Pamela Prati in ognuno di noi: grazie alle nuove tecnologie, tutti ci inventiamo una fiction da raccontare a un pubblico più o meno vasto, ai nostri follower, ai nostri amici.

In fondo l’enorme successo di internet sta proprio in questo: nella sua capacità di creare un mondo parallelo. Oggi il web altro non è se non la copia digitale, meno sbiadita e più photoshoppata, delle nostre noiose esistenze.

Ora: tutta questa manfrina perché, in qualche modo, quello spicchio minuscolo di Pamela Prati esiste anche nei golfisti del Tour (e certamente anche in noi neurolabili dello swing).

Magari i pro non passano un taglio neppure a morire, epperò “tutto va bene”, twittano sicuri.

Magari da sei mesi centrano 4 fairway su 54 buche, epperò “sono sulla strada giusta”, scrivono sui social.

Magari hanno appena cambiato tre putt e due grip nelle ultime due settimane, epperò “è solo questione di routine”, mentono nelle stories.

Magari sono sospesi per sei mesi dalle gare direttamente dal Pga Tour, epperò “mi sono fermato per fare ordine nella mia vita”, postano online.

Morale: a leggere le dichiarazioni di buona parte dei giocatori (e non solo le loro), ti verrebbe da pensare che forse sarebbe ora di ridefinire i concetti di reale e verità.

Per dovere di cronaca, va aggiunto che non è che noi swingatori siamo diversi: “questa settimana non gioco” significa c’è una medal e non ho voglia della virgola.

“Ho giocato bene ma sono stato sfortunato” vuol dire patto come una bestia, e così via.

In un mondo totalmente narcisista, siamo tutti così presi dall’affannosa ricerca di trasformarci in quell’eroe delle favole a cui tutti credono e a cui tutti guardano, che spesso ci dimentichiamo chi realmente siamo.

Per concludere: già nel 1963 Andy Warhol asseriva: “A chi interessa la verità? Conta solo chi il pubblico pensa chi tu sia”. A giudicare la realtà di oggi, credo che mai nella storia parole furono più profetiche.

ps. Voglio metterci la faccia qui e ora, togliendomi la maschera dell’ego: sto giocando malissimo, non sono sulla buona strada per trovare una soluzione al mio push diabolico, non faccio una gara praticamente da gennaio, ma almeno in campo sono decisamente buffa. Il che non è un granché, in effetti, ma è già qualcosa.

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