Il golf? E’ un gioco di squadra

Si sa: tutto continua a cambiare vorticosamente, tutto si rinnova e si evolve per voltare pagina e tentare nuove vie nel sistema-mondo. Ma esattamente quando, da sport assolutamente individuale, il golf si è trasformato invece in un gioco di squadra? Quando esattamente il caddie, da semplice trascina-sacca, è diventato prima fine psicologo, poi stratega imprescindibile, infine parte di un pluralissimo “we/noi” in ogni risposta post torneo di ogni campione che si rispetti?

Il primo segnale? US Open, a Erin Hills: Giustino Tommaso Thomas sigla un 63 storico e nella conferenza stampa immediatamente successiva si rivolge ai giornalisti con un “noi”. Cos’è? Un uso disinvolto di un antico e ormai desueto plurale maiestatis?

Nossignore.

Giustino e il suo caddie formano un tutt’uno, una monade indissolubile di leibniziana memoria: decidono, scelgono, pensano e tirano insieme. Roba che Dolce e Gabbana levatevi proprio.

Poi tocca a Rory McRory a Birkdale. Cinque sopra dopo le prime 6 buche dell’Open Championship, suonato come un neurolabile alla prima garetta di circolo, viene svegliato dal gong brutale del caddie JP Fitzgerald, uno che nonostante un cognome che ricorda feste e bagordi anni ’20, in campo ha una mimica facciale mattarelliana.

Morale: il buon JP lo prende così tanto a male parole, che i riccioli scuri di Rory si lisciano di botto e da lì in avanti il nordirlandese marca un sodo, ma tardivo, punteggio di meno 10.

E ancora: sempre a Birkdale, il dramma dello spiethato va in scena alla fatidica 13 del quarto round, quando Mike Greller prende in mano taccuino, bastone, nervi e ansia di Giordanello e, dal baratro psichico e tecnico nel quale il texano stava affondando, lo conduce salvo e vittorioso fino alla 18.

Inutile a dirsi, alla premiazione Jordan non si dimenticherà né di ringraziare pubblicamente, il caddie, né di fargli toccare l’intoccabile Claret Jug.

Lo sa bene anche Adamello Scott, che ha sempre dichiarato di dovere la sua unica giacca verde alla lettura perfetta da parte di Steve Williams della pendenza sul putt decisivo del play off del Masters 2013. E lo stesso Williams non era forse quello che – si dice – teneva bordone a Tigerone nelle sue serate ad alto tasso di corna? Ma al netto di Woods e delle sue stravaganze, un aspetto pare conclamato nel golf moderno: se un tempo i giocatori decidevano la strategia da adottare in autonomia e soprattutto in pochi secondi, ora le discussioni tattiche col caddie hanno assunto toni, liturgie e tempi da meeting del G20. Voglio dire: a ogni colpo, più che aprire il libretto delle note, si aprono veri e propri tavoli di concertazione.

“Non so quanto questo sia un bene –spiega Mario Tadini, un passato sul Challenge e sull’European Tour- Un tempo i caddie servivano a noi giocatori soprattutto per dare a loro la colpa dei nostri errori, mentre oggi sono dei veri e propri professionisti. In passato era tutto molto più improvvisato, a differenza del golf moderno nel quale nulla è più lasciato al caso e i campioni sono circondati da veri e propri staff, di cui il caddie è una delle pedine più importanti”.

Eppure, nonostante tutta la preparazione possibile, il caddie oggi può anche essere una temibile arma a doppio taglio. Ne è convinto Matteo del Podio, che dalla Svezia dove sta per prendere parte a una gara del Challenge Tour, sostiene: “Se il giocatore è forte, il caddie deve essere bravo almeno tanto quanto lui, se no fa solo danni. E questo perché sono convinto che il pro resta sempre il migliore per suggerirsi la strategia giusta: in fondo non si conosce meglio di chiunque altro? Ora, se il caddie non riesce a essere il suo alter ego, a immedesimarsi completamente nel feeling del giocatore che ha a fianco e dunque a essere la sua versione lucida e distaccata in campo, allora il disastro è a portata di mano. Faccio un esempio: se io di solito colpisco in fade e ho un vento da destra verso sinistra, il caddie deve capire che in quel caso per me quella brezza sarà contraria e che dunque avrò bisogno di un paio di ferri in più del solito. Se dunque sto pensando a un ferro 5 e il caddie mi dice invece ferro 7, con ogni probabilità giocherò un 6 e chiuderò con un bogey. Per questo motivo, è necessario che il caddie abbia la stessa conoscenza del gioco del giocatore, il che però è difficilissimo. Questo significa che i caddie dei primi 50 giocatori al mondo sono a loro volta dei veri fenomeni, o, come nel caso di Renato Paratore, degli ex giocatori professionisti”.

Morale: alla fine, quella che, golfisticamente parlando, pare un’impresa disperata, spesso è anche una questione di caddie. Ma, attenzione, solo di un caddie, ops, di un alter ego, bravissimo.

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