Il golf, quella cosa in cui la pazienza è la risposta

Ho intervistato Billy “Polipo” Horschel lo scorso luglio, durante l’Open Championship di Troon.

Nonostante un periodo di stasi lungo come più legislature e una sequela di risultati non entusiasmanti (non vinceva niente di niente dal mitico settembre del 2014, mese del successo milionario nella FedEx Cup), mentre masticava con fare yankee il solito chewing gum e mostrava il canonico sorriso Durban’s a cinque stelle, dal sofà della maestosa lounge dove eravamo comodamente seduti, si diceva ottimista e certo che “grandi cose” stavano per accadere a lui e al suo golf. Insomma, dal quel divano bianco immacolato, mi proponeva la solita tiritera che il campione in crisi ti propina quando sa esattamente dove vuole andare, ma sa anche che ci sta mettendo troppo tempo.

Ora: domenica sera, a quasi un anno di distanza da quella chiacchierata, il “Polipo” ha vinto sul Pga Tour l’AT&T Byron Nelson, bruciando al play off niente popò di meno che Giasone Day, uno che ti fa paura anche solo a vederlo swingare a vuoto il bastone.

Ve lo confesso: ho fatto il tifo a bomba per Billy. Non solo perché dal vivo è un figobestia e certe cose –diciamocelo- non guastano mai.

Nossignore.

Ho fatto il tifo perché le storie di rinascita, a partire da quella di Lazzaro, a me stimolano la speranza che, tutto sommato, ce la si possa fare tutti, nel bene e, soprattutto, nel male.

In quell’occasione Billy mi raccontò che il suo gioco corto stava migliorando così tanto da poterlo considerare ormai un punto di forza, mentre, al contrario, temeva che l’innata tendenza dei Sagittari come lui di voler avere sempre tutto sotto controllo, non gli permettesse di giocare fluido come invece avrebbe desiderato: “Devo sedermi, rilassarmi e aspettare –si giustificava- perché se cerco esageratamente il controllo, alla fine incasino tutto”.

Ve lo confesso: all’inizio delle seconde nove buche, quando ha iniziato a balbettare sui green e a guidare la testa del putter più che a lasciarla andare liberamente per i fatti suoi contando solo sull’onestà della forza di gravità, ho temuto che il “reggimentale Sagittario” (così di definì a luglio NdR) che c’è in lui stesse cominciando a scalpitare, scagliando frecce in ogni dove senza mai centrare il bersaglio.

Poi, alla 14, quel putt bomba calato in buca da un altro codice postale, gli ha ridato fiato e speranza sufficienti per zittire quel maniaco ossessivo che si nasconde sotto quei look colorati che abbiamo imparato a conoscere.

Poi un altro birdie e, infine, il play off in cui Giasone non ha centrato la buca.

Ecco, è stato lì che mi sono chiesta: ma come si fa? Come si fa per quasi tre stagioni a non vincere nemmeno una ceppa -e per altro a farlo nei migliori anni biologici- e a restare fiducioso? Come si fa a restare lì, incollato alla credenza che non esista un motivo più forte di te perché il golf possa continuare a creparti il cuore manco fosse una parete di cartongesso? Come si fa a sentirsi giganti mentre il mondo tutt’intorno pare urlarti il contrario? Come si fa a sperare nel bene in quel mentre in cui tutto va a ramengo?

Forse proprio mollando il controllo, perché quando le risposte non ci sono, come in questo caso, allora è davvero il momento giusto per dimenticarsi le domande e lasciare vagare la mente libera nelle praterie della speranza. Perché una cosa sola è certa per chi fa questo strano mestiere sui Tour di mezzo mondo ed è questa: la speranza, quella che altrove è un’eccezione, qui è un’abitudine. E quando sai che alla speranza ti devi abituare, capisci che è il momento di chiamarla pazienza.

Morale: la pazienza è la risposta a tutte quelle domande in cui non hai riposte.

 

 

 

 

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