Il valore dimenticato della sintesi

Le cose giuste sono spesso le più semplici. Epperò la semplicità non pare essere di questo mondo.

Tutti, indistintamente, tendiamo ad ammantare la realtà che ci circonda di un senso di complessità inutile.

Prendete il mondo finanziario: non utilizziamo più il denaro semplicemente per lo scopo per cui è nato -per godere di beni e servizi- ma semmai per produrre altro denaro, per giunta spesso virtuale, creando patatràc globali dalle dimensioni di biblici Armageddon. Il risultato è che il mercato si è trasformato in un assoluto ontologico e le nostre vite in un prolungamento della carta di credito.

E ancora: la comunicazione ormai istantanea e virale, invece di facilitarci il contatto umano, ci fa perdere la tramontana per quelle cazzate a ripetizione che si chiamano stati di facebook, doppia spunta blu, visualizzato senza risposta, post-verità, bufale vere o presunte, troll incontrollabili e social-odiatori da sofà.

In politica, con i programmi dei partiti che durano al massimo quei 20 minuti che li separano dal prossimo sondaggio, zigzaghiamo sperduti in una giungla di proclami inattuabili e smarginati, anche quando votare sarebbe la cosa più semplice a farsi, ma per carità.

Infine, nel golf, che per noi smazzatori neurolabili da week end dovrebbe rappresentare l’ultimo bastione eretto a difesa della semplicità dei sabati pomeriggio, abbiamo ormai la necessità di un tutor che ci guidi nei meandri algoritmici degli aggiustamenti settimanali dell’handicap. Ma non solo: invece di costruire percorsi che con qualche par e birdie qua e là ci permettano di evadere da questa esistenza incasinata, progettiamo campi metricamente infiniti che l’unico desiderio che riescono a esaudire è quello di farci scappare il più lontano possibile dal green. Contemporaneamente, ci lamentiamo del calo dei praticanti, salvo poi in parallelo arroventare il cervello dei neofiti con lezioni di tecnica che più che di swing paiono discettare di trigonometria astrale che Rubbia levati proprio.

Voglio dire: come già Jack Nicklaus, anche io inizio a temere che per il golf  tutto questo casino immane che abbiamo costruito intorno a una pallina da buttare in una buca, altro non sia se non ciò che uno schema Ponzi è per un investimento finanziario: alla lunga, una perdita enorme. E la deve pensare così anche Tiger, se è vero come è vero che l’ex numero 1 del mondo ha appena inaugurato a Cabo San Lucas un campo a 12 buche par 3, perché, sostiene, “cinque ore per giocare sono davvero troppe e allora bisogna provare a cambiare”.

Ecco qua: bisogna cambiare. Ma in quest’universo trasformatosi in un labirinto complesso e senza via d’uscita, ho come la sensazione che si sia persa la capacità di sintetizzare, di capire cosa è realmente necessario e di eliminare il superfluo. Anzi, il superfluo pare aver preso decisamente il sopravvento, con buona pace di quell’economista sinistrorso di Latouche che da anni va predicando in giro la bontà di una decrescita felice.

Eppure, nonostante l’apparenza, la sintesi non è una gabbia, ma una disciplina di pensiero che costringe a condensare il succo del discorso nel necessario e a non divagare nella perniciosità dell’inutile.

La sintesi nel golf? Gira le spalle, tira la catena, tieni giù la testa e colpisci. E soprattutto, tirane il meno possibile, giocando sempre la palla come la trovi. Poche cose, chiare, concise e limpide. Ma inizio a temere, nei green come nel resto del mondo, che la semplicità non goda affatto di un buon ufficio stampa. La semplicità fa vendere poco. Meglio incasinare tutto e creare confusione, che quella, sì, che paga meglio. E magari paga pure in nero.

 

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