L’insostenibile prevedibilità del golf moderno

In un’epoca come quella moderna, fortemente caratterizzata dalla flessibilità e dal precariato in ogni campo, esiste una minuscola fetta di mondo -l’empireo del golf stellare dei top ten mondiali- dove le cose paiono aver preso una piega diametralmente opposta alle faccende terrene. Dove le cose paiono essere in controtendenza rispetto alla liquidità baumaniana in cui noi comuni mortali nuotiamo ogni santo giorno.

Se là fuori, lontano dai green del Pga Tour e dell’European Tour, il mondo pare essere vittima di correnti improvvise che provocano accelerazioni violente e per niente controllabili, nei fairway dei circuiti professionistici globali il gioco pare essere diventato perfetto come quei meccanismi infernali dell’orologeria svizzera.

Se è vero come è vero che tra i top 10 del Pga Tour, nella stagione appena conclusa, la percentuale di green presi nei colpi regolamentari si assestava comodamente oltre il 70%, con drive che 7 volte su 10 si accoccolavano placidi in pista oltre le 310 yards di media, è anche vero che mai come in questi tempi il golf moderno di questi super reoi dello swing pare essere diventato assai prevedibile, se non scontato. Almeno, ovviamente, fino ai pressi della buca: con questi dati scioccanti delle statistiche in mano, non pare azzardato confermare che il golf del ventunesimo secolo diventerà sempre più una gara di putting green.

Trecentodieci yards col driver, ferro medio-corto al green (e poco importa se sei in rough se alla fine ti ritrovi coi wegde carichi di grooves in mano per la bandiera), e lo show si restringe tutto nei pressi della buca.

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Ora: rispolverando qualche giorno fa alcuni vecchi video di un Severiano vintage, non potevo non chiedermi se il golf a zig zag lungo il percorso tipico di quei tempi ormai preistorici non fosse mille volte più divertente e accattivante di quello di oggi.

Tee shot nei boschi, ferri 5 a uncino bassi a uscire, approcci vellutati che solo i grandissimi sapevano far spinnare e fiato corto per tutta la buca e per tutto il tempo del recupero del par: il golf di quei giorni era più imprevedibile dei finali di Agatha Christie, e non certo quelle spoilerate prevedibili a cui siamo ormai abituati oggi con Netflix.

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Severiano Ballesteros

Mi direte, vi direte: sei afflitta da retrotopia, da una passione insana per quello che ricordi, che conosci bene, che ti rassicura e che, soprattutto, fa parte del tuo passato.

Può essere. Può essere che io stia solo facendo montare della panna retro. Può essere tutto, per carità. Anche che il tempo che sia trascorso abbia aggiunto profondità a un tipo di gioco che pare ormai dimenticato sotto il moderno fuoco incrociato di drive sempre più potenti, di palline sempre più performanti e di swing sempre più scientifici.

Lasciatemi però aggiungere questo: so benissimo che il passato esiste solo come un ricordo che ci raccontiamo esattamente come vogliamo (il golf vintage era bellissimo, per esempio), ma so anche, come sosteneva Erodoto, che, tra le pene umane, la più dolorosa è quella di prevedere molte cose e di non poterci fare nulla.

Insomma, così va e sempre di più andrà il golf: drive in pista, ferro in asta e putt, con buona pace dei brividi dell’inatteso. Ovviamente, Masters permettendo.

 

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