The Masters: Tiger come Ben Hogan?

Sedici mesi. È il tempo che, nel lontano 1950, Ben Hogan impiegò per tornare a gareggiare sul Tour e vincere il suo primo Major –lo storico U.S. Open di Merion- dopo il terribile schianto automobilistico della sera del 2 febbraio del 1949.

Si spezzò il bacino, le gambe, le costole, Ben Hogan, quella notte. Rischiò di lasciarci le penne per un’emorragia che, nella fitta nebbia serale di El Paso rotta solo dal rosso sangue delle sirene, non la voleva smettere di vomitare l’anima del campione texano. Ma Hogan ce la fece: sopravvisse. E non solo. Trovò il segreto nella polvere, disse; nel lavoro, diremmo noi. Soprattutto in quello al campo pratica, alla ricerca ossessiva e maniacale di uno swing, di una tecnica, di un feeling: di qualcosa, di qualunque cosa che funzionasse a far volare la palla verso il bersaglio e, soprattutto, che si potesse adattare alle sue nuove limitazioni fisiche.

A gennaio, undici mesi dopo l’incidente, tornò a gareggiare sul Tour; a giugno, scrisse la storia andando a conquistare il secondo dei suoi quattro U.S. Open.

Per questo e per mille altri motivi, seppur con le dovute differenze, il ritorno di Tiger Woods ad Augusta ricorda il ritorno di Ben Hogan a Merion: sessantotto anni dopo, c’è di nuovo un Major, il Masters di Augusta, in cui un campione vuole disperatamente venire “out of the dirt”, fuori dalla polvere, con tutto se stesso.

IMG_1638

“Tiger Woods –ci spiega il chirurgo ortopedico Fabio Verdoni- ha subito nell’aprile del 2017 un’artrodesi, cioè una fusione lombare. Si procede con questa tecnica quando ci sono due articolazioni consumate: in questo caso, il danno era nel disco intervertebrale che non ammortizzava più e provocava sciatalgia, problemi alle terminazioni nervose, nonché disturbi motori”.

In buona sostanza, le vertebre L5/S1 di Woods sono state bloccate tra loro attraverso una placca metallica che, con delle viti inserite all’interno della colonna, hanno stabilizzato la situazione.

“Se dal punto di vista funzionale –continua Verdoni- con quest’operazione Tiger ha potuto cancellare del tutto i dolori lancinanti di cui soffriva, da quello biomeccanico, invece, ha certamente subito una limitazione nella capacità di flessione nelle due vertebre saldate, che a sua volta si potrebbe tradurre in un condizionamento del suo gesto atletico”.

Tiger tutto questo lo sa. Ma sa anche che, come Ben Hogan nel 1950, ha innanzi tutto bisogno di capire cosa può e cosa non può più fare ed è da lì che sta ripartendo. Per questo motivo ha silurato anche l’ultimo coach, Chris Como: secondo Butch Harmon, il suo primissimo swing guru, “Woods conosce la sua tecnica meglio di chiunque altro al mondo” e, siccome solo lui sa come realmente si sente con quelle viti piazzate nella colonna vertebrale, allora solo lui, anche grazie all’ausilio della moderna tecnologia che Hogan non aveva, può costruirsi, pezzo dopo pezzo, uno swing che sia il più funzionale possibile.

“Quello che si è potuto osservare fino ad ora di Tiger –spiega Cristiano Cambi, biomeccanico e preparatore atletico della nazionale maschile- racconta di un movimento decisamente più composto, il cui scopo è far sì che il fulcro di rotazione passi più per le anche, che per la parte lombare malandata. Per questo motivo, Woods attualmente swinga con un maggior lavoro dei fianchi e delle gambe, sfruttando così al massimo la velocità che gli scaturisce dalla Ground Reaction Force. In questo modo, come già recentemente ha fatto Phil Mickelson, è riuscito persino a guadagnare distanza e yards dal tee”.

IMG_1449

Fortunatamente per Tiger, le moderne attrezzature richiedono uno swing con una minor flessione delle sue vertebre malandate: “Oggi –continua Cambi- quella che un tempo era una flessione, si è trasformata in quello si definisce Side Bending, in un’inclinazione cioè verso il fianco destro della parte lombare al momento dell’impatto con la pallina. In poche parole, se nel downswing i fianchi si muovono correttamente, ruotando verso il bersaglio, le vertebre lombari non hanno più bisogno di flettersi”.

Insomma, oggi Tiger Woods è quello che si definisce un costante “work in progress”: sostanzialmente le sue prime uscite sul Pga Tour sono state più che altro un’occasione per imparare a conoscersi nuovamente e per adattare la sua tecnica al suo nuovo fisico.

Come Hogan prima di lui, Tiger sa che probabilmente non tornerà mai quel giocatore che era prima degli infortuni e dell’intervento, ma sa anche che, per indossare la Giacca Verde, gli basterebbe tornare a essere solo una piccola parte di quel giocatore, perché, come sosteneva Jack Nicklaus, “I Major sono i tornei più facili da vincere, dal momento che nove giocatori su dieci tremano quando il premio è in vista”. E la storia insegna che Tiger non ha mai fatto parte di quei nove.

(da Golf & Turismo, marzo 2018)

Leave A Comment

Your email address will not be published. Required fields are marked *