Non è colpa delle palline da golf

Pare se ne discuta alacremente solo negli ultimi tempi: volano troppo, si dice; hanno reso i campi ridicoli, si aggiunge.

In verità, della pallina da golf e delle sue misure, si dibatte con sforzi titanici dal 1910, quando, dopo aver perso un match contro Harry Vardon, il due volte vincitore dell’Open Championship, Willie Park Jr., sentenziò: “La palla deve rispettare determinati standard. Se oggi la prima buca di 500 yards viene giocata con un drive e un ferro, mentre undici anni fa servivano due legni pieni e un pitch, è evidente che qualcosa deve essere fatto per prevenire che i campi da golf vengano totalmente ridicolizzati”.

Ipse dixit. Da allora, cioè da ben 108 anni, la disputa continua imperterrita e il mondo del green vive (erroneamente) nella netta percezione che l’unica responsabile dell’aumento delle distanze coi driver sia solo e unicamente la pallina.

In verità, a oggi è proprio quella magica sfera coi dimples la parte dell’attrezzatura più regolata e vincolata che esista nella storia del nostro sport.

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I primi dettami circa la pallina da golf risalgono addirittura al 1920: in quell’anno se ne stabilirono peso e grandezza; quindi le misure vennero modificate nel 1931 e nuovamente nel 1932. Nel 1960 comparvero le prime palle a due pezzi con la cover in Surlyn, ma fu necessario attendere i primi anni del nuovo millennio per vedere le prime palline dotate del cosiddetto “solid core” (le Titleist ProV1), che, coi loro tecnologici elastomeri in uretano, andarono a rimpiazzare quelle classiche col “liquid filled core”.

Nel frattempo, mentre la palla se la viaggiava per aria, non è che il resto dell’attrezzatura sia rimasto a guardare: le teste dei legni in persimmon si sono trasformate prima in acciaio, quindi in titanio; le teste dei driver sono passate da un volume di 190cc a uno di 460cc; nei bastoni è aumentato il MOI; gli shaft in graphite hanno sostituito quelli in acciaio; la lunghezza media dei driver è aumentata dalle 43 inches e un quarto di un tempo alle 45 inches odierne, mentre, contemporaneamente, il peso medio dei driver è sceso del 25%.

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Il risultato di tutto questo sconvolgimento tecnologico è che oggi abbiamo in sacca dei legni più potenti e più facili da controllare: in buona sostanza, dal tee si può sparare al massimo della forza, senza aver timore di sperdere il colpo. Ma non solo: anche l’erba dei percorsi si è modificata nel tempo. Per dire: se negli anni ‘70 il tipico stimpmeter dei green era di 6.5, oggi si è verticalizzato a 11.8 e lo stesso trattamento hanno subito i fairway, dove, in alcuni casi, la palla rotola più velocemente che nei pressi della buca.

Il risultato? Le distanze dal tee sono aumentate.

Secondo un recente report congiunto di USGA e R&A che ha preso in considerazione i dati di ben sette Tour maggiori, dal 2003 al 2017, quindi negli ultimi 14 anni, la media della distanza coperta dal tee è cresciuta del 2,3%, in pratica di 6,6 yards.

Niente di sorprendente, se, oltre ai dati già elencati in precedenza, si aggiunge il fatto che i giocatori professionisti di oggi sono più giovani, alti e palestrati di un tempo. Con l’ausilio della moderna attrezzatura e grazie a queste doti fisiche e anagrafiche, la velocità media della loro testa del bastone è cresciuta di 1,5 km/h, il che, tradotto in metri, equivale più o meno a quelle 6 yards in più registrate dal report di USGA e R&A.

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Ora: nonostante tutto, Jack Nicklaus e molti altri con lui tengono accesso il dibattito sulla necessità di una nuova standardizzazione delle misure della pallina. Nel tentativo di “salvare il golf” (anche se non si capisce da cosa), chiedono a gran voce una riduzione del volo del 20%, che, a dirla tutta, sarebbe come chiedere a un cittadino di pagare il 20% delle tasse in più: una follia, a ben guardare. Ma dietro il polverone della polemica, c’è anche un interesse economico ben visibile: è quello dei costruttori e dei proprietari dei campi da golf e delle relative attività immobiliari. Desiderosi di poter vantare i percorsi più difficili possibili su piazza e, al contempo, volendo ottenere l’approvazione da parte del Tour per poter lanciare mediaticamente i loro investimenti ospitando su quei fairway Open e quant’altro, sono fortemente preoccupati dall’idea di dover investire tempo e soprattutto denaro nel disegno di percorsi di lunghezza infinita con par 5 di oltre 600 yards che sembrino inattaccabili dai drive dei campioni.

La verità, che però pare non coglierli, è che il golf si sa difendere benissimo da solo: ne sono prova alcuni percorsi straordinari di meno di 7.000 yards (come Merion, per esempio), che, complici rough e green ondulati e duri, rendono la vita difficile a chiunque giochi da quelle parti.

Morale: considerate tutte le variabili del caso, letti i report, i numeri e le statistiche, un ironico “non rompete le palle ai golfisti” sembrerebbe essere l’unica risposta possibile a tutte queste sterili polemiche davvero fuori tempo massimo.

(Da Golf & Turismo, aprile 2018)

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