Se anche Einstein non ce la fa

Una leggenda sostiene che Albert Einstein abbia provato a giocare a golf, ma che abbia desistito quasi subito, perché trovava il gioco “troppo complicato”.

In buona sostanza, l’uomo che aveva messo in ordine l’universo, non riuscì mai a mettere in ordine il suo swing.

Non è dunque un caso se proprio sulla problematicità intrinseca del golf ha posto l’accento la National Golf Foundation, quando ha snocciolato gli ultimi dati poco lusinghieri sullo stato di salute del “green” statunitense.

Nel 2015 2,2 milioni di americani hanno infatti provato a giocare per la prima volta: è il numero più alto di principianti assoluti dal 2002. Nonostante tutto, il totalone dei golfisti negli Stati Uniti è sceso a 24,1 milioni contro i 24,7 dell’anno precedente.

Morale: la gente è incuriosita dal golf, lo prova, ma poi lo abbandona quasi subito, perché frastornata dalla complessità del gioco.

Se spostiamo lo sguardo in Europa, non è che lo stato di salute del nostro sport appaia più florido. Anzi.

Secondo una ricerca della Sports Marketing Survey Inc, nei primi tre mesi del 2016 nel Regno Unito il numero dei giri giocati è sceso del 7,5% rispetto allo stesso trimestre del 2015.

Non deve destare meraviglia, dunque, la scelta del gruppo Adidas di disfarsi dell’asset legato al golf, giudicato ormai non più strategico.

Non solo: mentre i marchi di Taylor Made, Ashworth e Adams venivano messi sul mercato, il Ceo del gruppo dichiarava che, a meno che il golf non s’inventi qualcosa di nuovo e rivoluzionario nel futuro prossimo, ipotizzare di guadagnarci è un’utopia.

Questa dunque a grandi linee la situazione là fuori, in paesi golfisticamente molto più evoluti di noi.

Ora: al 31 dicembre 2015 i tesserati in Italia erano 90.027, contro i 101.000 circa del record azzurro del 2012.

Le previsioni per la stagione in corso raccontano la sostanziale conferma delle cifre dell’anno passato.

In buona sostanza, la crisi c’è, è palpabile, ma teniamo botta, inventandoci il golf a 99 euro, la promozione sui giornali, importando dall’estero l’handicap 54 e proponendo i tee avanzati per i senior e i bambini.

Tutto giusto: da una parte s’inseguono nuovi tesserati offrendo loro una passione più abbordabile economicamente e tecnicamente e dall’altra si fidelizza chi già gioca regalando il sogno della Ryder.

Eppure, nonostante la complessità della situazione e gli sforzi messi in campo, il mugugno nelle club house italiche è forte.

Ci si lamenta del primo lordo al posto del primo netto, dei ragazzini handicap 54, dei nuovi tesserati a digiuno del dress code, dei 9/10 dell’handicap in 4 palle e, perché no, anche dei senior anticipati ai 50 anni.

A guardare là fuori, nel mondo, dove per esempio in questi giorni ci s’interroga su come aiutare le intelligenze artificiali a comprendere i valori umani o si scovano algoritmi che negoziano tra forze imprevedibili in situazioni imperfette, ecco, guardando al di fuori dei confini dello Stivale, e ripensando alla bassezza della qualità delle discussioni golfistiche nostrane, verrebbe quasi da pensare che i problemi di cui si discute in un paese sono lo specchio dei suoi abitanti. Il che –tristemente- è tutto dire.

(da Golf & Turismo giugno 2016)

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