Se la somma di quote, gare e green fees non basta più

La memoria è il più inaffidabile dei marchingegni e per questo semplice motivo nessuna versione dei fatti è mai veramente oggettiva.

Fortunatamente, in questo scenario da dubbio perenne, esistono i numeri e, si sa, la matematica non tradisce mai.

Ora: questi stessi numeri ci ricordano, nel caso la memoria ci venisse in difetto, che nel biennio 2016-17 sono stati 29.000 i golfisti italiani che hanno disputato meno di otto giri in una gara valida.

Tradotto, significa che nello Stivale golfistico quasi il 30% di noi 90.000 tesserati gioca una media misera di 4 gare all’anno.

Questi stessi numeri, con la freddezza di cui la matematica è fatta, ci segnalano anche un’altra cosa: che, restando così lo scenario, pensare che alla lunga, di qui a venti anni, un circolo di golf in Italia possa sopravvivere di soli di green fees, tornei e quote associative è quanto meno ottimistico.

Certo, fortunatamente esistono anche da noi decine di casi virtuosi e di gestioni oculate, ma se in futuro i numeri dei praticanti non cresceranno con un ritmo convincente e la media dell’età dei golfisti azzurri tenderà –come già sta facendo- a spostare l’asticella sempre un po’ più verso l’alto invece che verso il basso, beh, la prospettiva è tutta in salita.

La situazione è sotto gli occhi di tutti: il binomio perfetto “immobiliare+golf” che fino a ieri ha trainato l’espansione del green italico è finito e sepolto e, se in passato ci ha lasciato in eredità case, ville e campi meravigliosi, oggi che quelle case e ville meravigliose sono state vendute e rivendute (nel migliore dei casi), ci appioppa invece solo conti difficili da far tornare. Ma non solo: a dirla tutta, anche il sistema della governance assembleare che regna da sempre nei nostri club inizierebbe, in molti casi, a sembrare quanto meno obsoleto. O meglio: funziona benissimo in tempi di prosperità e vacche grasse, ma, spesso, fatica e si trascina in tempi di difficoltà economica come quelli presenti.

Ora, senza arrivare minimamente ad abbracciare la causa di Georges Clemenceau che sosteneva che la “democrazia è la potestà accordata alle pulci di mangiarsi il leone”, è però anche drammaticamente sincero il pensiero di quei colossi internazionali che operano nel mondo del golf estero e che sostengono che, per investire da noi, sarebbe necessario un nostro deciso cambio di mentalità. Non per niente, il fatto che in Italia la maggior parte dei campi sia retta da assemblee anziché da proprietari non è per forza una cosa negativa, dicono, ma frenerebbe in buona sostanza i loro eventuali investimenti nel settore.

Nel frattempo, i risultati e l’operosità di alcune realtà golfistiche italiane sembrano dare ragione a questi stessi esperti stranieri: i progressi e il fermento che ho recentemente testato con mano a Tolcinasco, Villa Carolina e Montecchia, golf club che godono ciascuno della visione imprenditoriale e della mano ferma di un proprietario, mi hanno fatto pensare che il futuro del golf italiano, per esistere, deve essere linkato a molto più di quanto in realtà è oggi. Se infatti nella stragrande maggioranza dei casi, il green dello Stivale si riduce solo alla somma di quote, green fees e gare, oggi a questa somma è evidente che manchino addendi decisivi. Mancano tutti quegli eventuali servizi aggiuntivi (per esempio, la palestra, una spa, il fisioterapista, la piscina, il tennis, il preparatore atletico, il babysitteraggio, ecc…) che si possono e si devono immaginare a favore dei clienti. Perché solo con un’offerta più ampia e variegata è possibile convincere non solo i golfisti a restare, ma anche quelli che sono i non golfisti ad associarsi.

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In una visione di ampio respiro, le club house dovrebbero insomma trasformarsi in una sorta di “mall”, all’interno del quale non solo dovrebbe essere possibile incontrarsi e cambiarsi le scarpe bevendo un caffè al bar, ma dove si dovrebbe vedere soddisfatta una serie di bisogni sportivi, sociali e, soprattutto, familiari. Ma per riuscirci, ho la sensazione che si debba avere una mentalità da imprenditore, più che da assemblea. Perché è all’interno di quest’ultima, che, chissà perché, il più delle volte il futuro resta fuori dalla porta, bloccato da interessi personali e personalistici, spesso imbalsamati sul presente.

Comments

1 Comment
  1. posted by
    Alessandro Peta
    Feb 2, 2018 Reply

    Cara Isabella condivido largamente la tua riflessione in merito al futuro del Golf in Italia. Non penso però sia necessario un “padre padrone”, nelle aziende non c’è eppure funzionano. È necessaria però un leadership imprenditoriale che è altra cosa

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