Se la vita non si vive, ma si posta

Gabriel Garcia Marquez scriveva che la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.

Henry Matisse, a sua volta, dipingeva la vita come un movimento inarrestabile, un cerchio ovale che non si chiude mai, perché impegnato in un continuo rinnovarsi.

Evidentemente, né il buon Gabriel, né il saggio Henry conoscevano le compulsive condivisioni social di oggi, quelle che fanno sì che la vita non sia più ciò che si vive là fuori, ma ciò che si posta online. E non avevano neppure una vaga idea, né il buon Gabriel, né il saggio Henry, di quello che sarebbero diventati i moderni social, quelli che se per caso hai impiegato gli ultimi tre anni della tua vita a dimenticare il tuo ex, ci pensa poi Facebook a chiudere il cerchio ovale, ricicciandotelo in bacheca sotto forma di ricordo non richiesto.

Morale: tutto ciò che facciamo, o ciò non facciamo quando invece sarebbe il momento di farlo, ce lo portiamo sulle spalle come uno zaino pesantissimo per il resto dei nostri giorni.

In questo quadro da Grandissimo Fratello, esiste la sottile ironia di un mondo che pur proclamandosi globalizzato, senza barriere e libero, ci obbliga però al ricordo imperituro e alla memoria infinita, la qual cosa ditemi voi cos’è se non un peso da schiavi.

La verità, dunque, è che in questa moderna società di guardoni esibizionisti che sono a loro volta guardati da un manipolo di guardoni esibizionisti, non esiste più il diritto all’oblio e alla distanza. Anzi, l’oblio e la distanza dal resto del mondo sono diventati il nuovo Hermès: quel lusso che tutti vorrebbero, ma che in pochissimi si possono permettere. Ed è forse a causa di questa trama orwelliana nella quale mi pare, mio malgrado, di essere invischiata insieme a miliardi di co-protagonisti, che a volte nutro la sensazione che l’unico modo per recuperare aria e distanza dagli occhi altrui, sia caricarmi la sacca da golf sulle spalle e abbandonarmi all’oblio e al silenzio, nella solitudine del campo. Almeno fino a quando non arriva quell’inesorabile qualcuno che indefesso mi ricorda: “Ho visto online che domenica hai preso la virgola”. Ed è allora lì, in quel preciso istante, che intuisco che noi umani siamo intrappolati nell’internet, manco fossimo mosche nella tela del ragno. E che, chissà perché poi, sono sempre le memorie peggiori a riaffiorare da quella melassa di algoritmi, quando invece quelle migliori paiono finire nel cimitero dei bei ricordi che evidentemente non abbiamo il diritto di frequentare.

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