Umanissime strategie di fuga

 

Martino Kaymer è uno degli uomini più equilibrati, tranquilli, sereni e fors’anche più noiosi che io conosca. Ed è stato proprio in uno di questi suoi deliziosi momenti “kaymerosi”, di assoluta pacificazione col mondo, che al Golf Milano, con quel suo tono monocorde dall’accento totalmente crucco, mi ha confessato che nel 2012 a Medinah, sul quell’ultimo putt decisivo della 18 domenicale, lui avrebbe voluto darsela serenamente a gambe.

Sissignore: proprio così.

Ora: ve lo riuscite a immaginare voi un tedesco che vorrebbe darsela a gambe levate? Voglio dire: quella è gente che non è arretrata di un passo neppure nella campagna di Russia.

“Se non l’ho fatto –ha continuato- è solo perché non sapevo dove potermi andare a nascondere. Cavolo, il mondo intero mi osservava!”

Vedete: il fatto è che da bambino, incollato davanti allo schermo, Martino aveva assistito al dramma del connazionale Langer, quando il puttino sbordato del tedesco di ghiaccio alla 18 aveva consegnato la coppa in mano americana.

Ecco: in quel frangente Kaymerello aveva sperato in cuor suo di non doversi mai e poi mai ritrovarsi in quelle stesse circostanze da gladiatore disarmato nell’arena. Ma siccome il destino ha occhi dappertutto e soprattutto ha un senso dell’umorismo che Woody Allen levati proprio, eccolo là che qualche anno dopo, con dovizia di particolari, ha apparecchiato per lui la stessa identica situazione. Con la differenza sostanziale che Martino il putt l’ha centrato e che con quel putt è assurto a gloria eterna quale eroe incontrastato di Medinah.

Bene. Tutto questo colorito preambolo per arrivare a un punto. E il punto sostanziale è che tutti noi per un breve intervallo vorremmo sottrarci agli obblighi che la vita ci impone. Tutti noi progettiamo vie di fuga. Da noi stessi, dal lavoro, dalle grane del quotidiano, dall’erario, dall’accudimento familiare, dai suoceri, dal mutuo, dalle responsabilità.

L’esistenza pesa, si sa.

La società moderna –figuriamoci poi lo sport- esige da noi un’affermazione permanente, la continua reinvenzione del successo. Ed ecco allora che subentra in ciascuno di noi la tentazione di mollare la presa, di assentarsi da sé. Non è un caso dunque se la tentazione contemporanea occidentale più forte è proprio il fuggire da sé, perché la fuga ha questo di magico: spargendo una magica polvere dorata su tutte quelle aspettative che poniamo su di noi e soprattutto su quelle che il mondo ha su di noi, pare sospenderle in un tempo lontanamente indefinito.

Ed è dunque proprio questo che se fossi io il capitano Clarke, vorrei che in Minnesota i miei dodici campioni tenessero bene a mente: che non c’è niente di male a voler fuggire. Che è umano e non c’è da vergognarsene. Ma che c’è anche chi, pur non credendo nell’aldilà, in punto di morte si prepara un cambio di biancheria, perché –sai com’è- non si sa mai.

Ed ecco perciò il punto: cari europei, portatevi un cambio di biancheria in sacca, perché se rinunciate a crederci, avrete già perso. E allora sì che non avrete dove scappare.

 

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